venerdì 29 giugno 2012

Lo sconosciuto

Ma il mio indirizzo è "Via del sopracciglio destro"...
(F. De Gregori, Chissà dove sei, 1974)


La Signora si spazzola i pensieri mentre guarda dal balcone il mare vicino e il cielo lontano. Nessun vento nei capelli, neppure una brezzolina leggera, sincera. Non distingue l'orizzonte, il vapore acqueo unisce il mondo liquido di sopra con quello di sotto. L'aria è liquida, ma calda e appiccicosa. Come i pensieri della Signora.


***

Lo Sconosciuto è un folle che sobbalza a ogni buca dello sterrato. Le stampelle incastrate nel sedile affianco, guida. Dal gambaletto di gesso sbrecciato fuoriescono ben più delle cinque dita regolamentari, metà piede si è ormai liberato. Pensa di essere diretto verso la libertà, sopporta il sopportabile, l'importante è non aver incontrato un blocco dei pulotti, sullo sterrato ormai è salvo.


***

L'aria è ferma, cocente, impietosa, leggermente sapida. Anche il mare sotto è immobile, senza increspature. Una goccia di sudore discende dalla fronte della Signora, scivola sul collo, si fa rivolo trovando porto sicuro nell'ansa dei seni. Si sente umida anche tra le cosce, umida e scivolosa, le mutandine zuppe. Insinua una mano tra le pieghe del pareo, e sotto il tanga, a sentirsi dove più è liquida. La figa come l'anima. Un polpastrello l'avverte che è bagnata di dentro non meno che di fuori. Bagnata e incandescente. Dov'è tuo marito, Signora?

***

Ha parcheggiato con rumore di ferraglia al limitare della macchia, di fronte allo stagno secco. Prima le stampelle fuori, poi con cautela lo Sconosciuto fuorisce dal catorcio, si issa in piedi e respira l'aria di mare, finalmente. Decide di evitare la scorciatoia che immette in spiaggia e sceglie di costeggiare lo stagno scomparso, dove la sabbia è più compatta. Alza lo sguardo sulla spiaggia, in quel tratto intrisa di turisti che si lasciano cuocere a fuoco lento dal sole giaguaro. Oltre gli ombrelloni variopinti cerca il mare, salvezza agognata. Non si stupisce della sua terrificante immobilità, né dell'indeterminatezza dell'orizzonte, celato da una cortina di vapori. Procede, a labbra serrate, verso il mare, aspirandone col naso l'effluvio salato. Lo considera balsamo fine.

***

La Signora ha schiuso le labbra, morirebbe per un cubetto di ghiaccio tra le cosce, per una mano d'uomo che non chiede, prende. Si domanda se non sia il caso di masturbarsi, di prendersi il piacere e placare il fuoco che le brucia dentro. Il marito è assente, lo sarebbe anche se ci fosse: sarà a bordo piscina che ciuccia una bibita con la cannuccia, mentre con la coda dell'occhio sbircia i culi delle turiste e le tette delle cameriere, ma anche le tette delle turiste e i culi delle cameriere. Questo la Signora non lo sa, lo sente, come lo vedesse. Il mare sotto è una cartolina dalla Polinesia, decide di raggiungerlo, sarà il Mediterraneo ad accoglierla nel suo liquido abbraccio, placandone l'arsura.

***

Raggiunta la battigia, lo Sconosciuto si avvia verso destra con passi d'airone fuor d'acqua, ogni passo avanti è uno strappo alla gamba resa più pesante dal gesso. Fatica sì, ma non c'è dolore, nessuna corona di spine sulla fronte imperlata, lui che è di legno di ginepro e non suda manco a morire. Non è neppure un santo a piedi nudi e se qualche bagnante distratto gli serra la strada volentieri gli darebbe di stampella. Ma il cammino è ancora lungo, e se vuole trovare la beatitudine nella solitudine deve procedere oltre il grumo di turisti che si affolla nel tratto dinnanzi al parcheggio. Tutti lì stanno, poi li senti che si lamentano che sembra Rimini. Basta serrare le labbra e andare avanti, non una stilla di splendore, una goccia di sudore, vada sprecata.

***

Si lascia alle spalle il villaggio-vacanze-tutto-compreso la Signora, e la piscina, con annesso marito, che per oggi, ha dichiarato, non si muoverà di lì. Dice che è stanco, che passa tutto l'anno a laurà, a tirare la carretta, che ha bisogno di riposo. Il mare è fantastico, non un'increspatura a turbare il quadro idilliaco, se non quella nebbiolina in fondo. Solo che per raggiungerlo tocca fare lo slalom tra i bambini che fanno grandi e inutili buchi nella sabbia, e ombrelloni, sediette e lettini, schivando, se possibile, palloni da calcio e palline scagliate a 200 all'ora da fanatici muniti di racchettoni. L'acqua poi è una piccola delusione, l'avverte tiepida, sembra ristagnare: non manca il torsolo di mela che galleggia e un paio di bicchieri di plastica immobili a mezz'acqua. Quasi in riva l'acqua fa le bolle, e neppure un'ondina vaga. Troppa gente, sospira la signora, non è l'Eden selvaggio che si aspettava, giunge a pensare che quell'ammasso di umanità vociante, risplendente di creme solari  sono forse le stesse persone anonime che incontra, solo un più vestite, al mercato, per strada o a lavoro, in-città. Vorrebbe uscire da quel magma, o la sua arsura non sarà placata. Si avvia verso sinistra la Signora in esplorazione, ormai decisa ad osare, le infradito fanno cic cioc quando pestano il velo d'acqua ferma.

***

Passo dopo passo, con pazienza d'airone zoppo, la meta non sembra così lontana. Si è già molto diradata la calca iniziale, ma oltre le rocce in fondo sa che troverà il paradiso che cerca. Ora non c'è più nessuno che incrocia il suo incedere da evaso che si trascina una palla di ferro: il piede offeso, costretto nel gesso. Lo Sconosciuto scaccia pensieri che vengono dall'anima, sanno d'inferno in terra, lutto, amore incompito e dilaniato, spirito umiliato e solo, ma non vinto, secoli di immobilità imposta. Serra le labbra e procede ancora, fino al paradiso, oltre quelle ultime rocce rosse.


***

Un canale largo una decina di metri le sbarra il cammino, sfociando in mare. Basta un fiumiciattolo a mandare a gambe all'aria i propositi bellicosi della Signora? In altre occasioni magari, ma quello è un giorno sognante, l'esplorazione continua, via dalla pazza folla, avanti con l'avventura in quella terra selvaggia. Imbocca il sentierino che costeggia il canale e in breve raggiunge il ponte di legno che porta all'altra riva. Guarda oltre e si avvede che non è un fiumiciattolo, ma un braccio di stagno che si getta in mare, stagno adibito a peschiera dagli aborigeni del luogo, gli autoctoni, conosciuti finora solo in camicia bianca da cameriere. Bei ragazzetti, qualcuno almeno, perché no, ma che accento buffo, tutto calcato sulle consonanti, pronunciate come fossero scoppi di petardo, scoppi ritardati. Cic cioc, la Signora calpesta qualche formicuzza e si imbeve del profumo dalla macchia. Da nord si è aperto uno spiraglio, la raggiunge qualche refolo inebriante, ma stento. Si sente ancora tra le cosce inebriata.

***

Lo Sconosciuto è ormai nel suo angolo di Paradiso. Posa gli arti artificiali su una roccia di porfido a pochi metri dall'acqua. Si guarda ancora attorno, nessuno è più in vista. Alle sue spalle una collana di deliziose calette intervallate da rocce d'ogni forma, scolpite dalla natura (c'è anche chi la chiama Dio, ma secondo me è femmina). Di fronte a sé si allunga un tratto di sabbia bianchissima che brilla al sole, lambita mollemente dalla risacca. Il mare fa da estrema barriera alla natura selvaggia delle colline retrostanti, che appaiono riarse, esauste, ma solo pochi mesi fa erano un trionfo di colori, profumi e fiori. Disserra le labbra e schiude gli occhi al mondo, come stesse nascendo allora, come tutto fosse nuovo, creato in quell'istante l'increato. Si spoglia di tutto, tranne che del gambaletto che lo teneva prigioniero: gambaletto poi lo è diventato a furia di strapparne ostie fibbrose, in principio giungeva a mezza coscia. Lo sconosciuto annusa il mare a pieni polmoni, lo beve nelle sue trasparenze, sa che lo accoglierà come un figlio perduto. Si avvicina a tentoni, poggiando con cautela sul vello sabbioso il piede gessato, fino a inzupparlo a pelo d'acqua. Le dita costrette del folle fanno cic cioc.

***

E cic cioc fanno le infradito della Signora, che ormai non ha più freni ed è decisa a seguire la direzione di quei refoli rinfrescanti, inebrianti. Porge loro il viso, il petto lievemente ansante, la figa che sente sempre più umida d'umori mescolati al sudore. Desidera. Cosa bene non lo sa, o forse lo sa fin troppo. Lungo la riva del mare non c'è più nessuno, come d'incanto. Il mare ora invita, ma gli resiste, si mette come obiettivo le prossime rocce, ma poi scopre una nuova caletta e va avanti. Finché di lontano scorge uno sconosciuto in riva al mare, che si muove in maniera bizzarra. E per di più sembrerebbe tutto nudo, in aggiunta ha una gamba che sembra molto più grossa dell'altra. Zoppica lo Sconosciuto fino all'asciugamano disteso, cava fuori dallo zainetto un paio di grosse forbici affilate. Ce ne sarebbe abbastanza per fare marcia indietro, cara Signora.


***

Lo Sconosciuto degna di uno sguardo il piede appena liberato, il cui pallore contrasta con la tonalità ambrata del resto del suo corpo. Ora è davvero completamente a nudo, in mano un grosso joint di canapa che aspira con discreta voluttà. Non ripensa a nulla: in quel posto, in quel momento non esiste ne passato né futuro, solo quell'istante. Quella scintilla di Tempo con la maiuscola. L'eternità in un attimo, chi l'ha provata sa cosa voglio dire. E' sul limine tra i due universi, tra terra e acqua, che si guarda attorno con lentezza e studio, socchiudendo un po' gli occhi mentre guarda verso sud, dove sfumano i contorni, le lunghe ciglia nere a proteggere gli occhi da bandito dai riflessi del solleone. Scorge ora la turista solitaria, ancora distante, che ancheggiando procede nella sua direzione. Per reazione si morde lievemente un labbro, ma decide di fregarsene, non andrà a rivestirsi in ossequio alla comune decenza, sarà semmai il mare a coprire la sua eresia, a proteggere lo Sconosciuto temerario e orgoglioso.

***

Ha un attimo di titubanza la Signora, ma è il basso ventre con i suoi fremiti a dettarle la strada. Si cautela  contro l'impeto dei sensi, rallentando il passo, chinandosi a cogliere qualche ormai rara conchiglietta. Per darsi un tono: è una Signora. Ormai a poche decine di metri, cinquanta forse, non di più, osserva i movimenti dello Sconosciuto che entra in mare con lentezza, sinuoso con zoppìo. Lo trova molto bello, in quella gloria di natura da sfinimento non fa contrasto. Un sospiro la sorprende come un refolo improvviso tra i capelli, l'aria salsa discende impetuosa nei polmoni, con pienezza nutre ogni suoi tessuto, ridona vigore, infonde strano coraggio, finora mai provato. O è la follia contagiosa dello Sconosciuto?

***

Lui solleva un sopracciglio, quello sinistro, la scruta mentre lei finge di interessarsi a quelle minuscole conchigliette. (Lasciatele stare, sono gli ultimi doni di un mare impoverito, e sono per tutti). Soppesa la donna in arrivo, ne intuisce il respiro più intimo, la sua umida natura. Solo per un istante, è più che abbastanza. Si rivolta verso la gran distesa d'acqua, riempe d'aria i polmoni, sentendo con piacere il dilatarsi del torace, fa un passo ancora, l'acqua è ormai alle ginocchia. Poi il balzo feroce, disumano, che strappa anche il piede pallido e offeso dal fondo del mare. Questa cosa è ancora dolorosa, ma dura un momento solo, non è niente in confronto al patimento che ha dovuto subire. Ora l'abbandono ha un senso, tutto in quel tuffo con cui si immerge totalmente nell'elemento liquido. Ciao ciao dolore: l'acqua che lo avvolge lava via ogni umiliazione patita, dona la leggerezza perduta ad ogni membra. Lo Sconosciuto riemerge dopo pochi metri, un altro respiro e un nuovo tuffo ancora. E poi ancora uno, e poi un altro, a polmoni pieni. Si sente pesce. Con l'acqua al mento, la bocca fuori (in the while crocodile), si volta verso la spiaggia e la vede ferma di fronte a lui, la Signora, con in mano una presa di conchigliette, il cuore in tumulto, ansante, dannatamente tentato. E non solo quello.

 ***

Con lentezza lo Sconosciuto si avvia ad uscire. Si sente nuovo, ma è solo una piacevolissima sensazione, è quanto basta. La Signora, immobile sulla riva come una vittima sacrificale, lo aspetta con la bocca socchiusa, non gli stacca gli occhi di dosso, ha perduto ogni ritegno? O pensa di ritrovarsi nel giardino dell'Eden, dove tutto è permesso? O quasi.

***

Baciato dal sole, lo Sconosciuto si ferma davanti a lei, sgocciolante: il maggior rivolo è quello che sceglie la via della virilità per tornare al mare. La Signora ha ancora la bocca semiaperta, trae quell'ossigeno che le fa sobbalzare lievemente i seni tumidi. O sarà il cuore, in qualche punto là sotto. Lui si aspetta che possa parlare, dire qualcosa che spezzi l'incantamento. Così sporge le labbra, quelle labbra rosa e viola, ma non è un invito a scoccare baci, un vezzo da seduttore. Poggia invece l'indice sollevato sulle labbra, fino a toccarsi la punta del naso. Gli occhi hanno un guizzo da predone gentile.

***

Gli occhi della Signora trovano ristoro, calano rapaci sul membro grondante dello Sconosciuto e non si staccano di lì. Manco fosse il piffero magico. Lui anticipa i pensieri di lei, prendendole una mano, la guida ad appropriarsi del suo fallo: percorso da un fremito al contatto, si innalza in gloria di un dio ebbro, in piena e immediata erezione. La cappella, rossa, accesa, è puntata verso il cielo come un monito: sono ancora qui, non mi spezzo mai, non mi piegherete mai. Ciò che conta è solo il qui e ora.

***
Guidata dal cazzo stretto in mano, come presa all'amo la Signora segue lo Sconosciuto, che camminando a ritroso, la conduce dove l'acqua è più alta, fino a quando sono solo le teste ad emergere. Tutto accade sotto il livello dell'azzurro più intenso. Le gambe di lei cingono i fianchi di lui, il costumino scostato di lato permette al cazzo risoluto di sprofondare interamente, riempedola a fondo, come non mai. I movimenti sono al principio dolci, ritmati dallo stesso movimento del mare. Poi un bacio di lingue salate, assetate, suggella una più completa compenetrazione dei corpi. Lo Sconosciuto sente la lingua di lei farsi gelata all'improvviso, come se la linfa vitale si concentrasse ormai in unico punto. Allora aumenta la cadenza dei colpi in quell'unica direzione, cioc cioc, mentre con le mani rapaci sui fianchi la tiene avvinta a sé, cic cioc, cic cioc, finché non raggiunge un ritmo indiavolato, quasi insostenibile. Ma ogni colpo inferto è accolto come una benedizione. Non dura molto, l'orgasmo li squassa uno dopo l'altra, mentre lei morde a sangue il collo dello Sconosciuto. Poi esausti si staccano, fianco a fianco, senza più toccarsi raggiungono la riva, toccano terra.

***

E' giunto l'attimo della consapevolezza per la Signora, era ora. Senza rimorso si accorge che il sole è ormai alto, e soprattutto che ha un marito che forse non è più a bordo piscina, ma la sta cercando, si domanda dove si sia cacciata,  non la trova.  Lo Sconosciuto abbozza un mezzo sorriso avvertito, mentre lei per tutta risposta allunga ancora una volta la mano a riprendersi quell'uccello d'uomo, forse per un saluto, una subitanea nostalgia, chissà. Il sorriso di lui è ora un bagliore completo, blocca al polso la signora, allontanando la mano predatoria. Stupore sul viso di lei, che domanda senza parole: Tu, chi sei? Ti ritroverò? Parla lui, lo Sconosciuto: Nei prossimi millenni potrai ritrovarmi ancora qui. Forse.

*****


 Giulio Romano, quasi 3.000 anni più tardi,
rappresenta l'immane disastro della stirpe di giganti
negli affreschi di palazzo Te, a Mantova.

Perché queste cose sono sempre.
E io sono ancora qua.


***

Avvertenza: ciò che ho rappresentato finora sul mio blog è stato narrato in prima persona, il che significa che gli accadementi erano tratti dalla realtà della vita mia. Nuda e pura: giacché tutto è puro per i puri. E' l'aspetto che ho sempre prediletto in questo contesto. Qua siamo invece alla terza persona, chi legge ne tenga conto. 



lunedì 25 giugno 2012

C'è felicità, o è solo sfiga

C'è felicità, o è solo sfiga: laspadachecantablues potesse ve ne spiattellerebbe subito qualcuna delle sue, ma niente, pare che Tutto sia già stato detto, Tutto sia scritto. Non diamocene troppa pena, ce n'è già una che è eterna. Allora il pensiero che urgente al ritorno si pone non è del Tutto mio, data millenni, è un antico frammento.

Il carattere dell'uomo è il suo demone.

Detto questo, torniamo a bomba. Ebbene sì, eppur si tromba. E questa è già una bella soddisfazione. Per il resto, per il momento, la chiudo qua, che necessità vuole che mi riguardi. Ma prima cerco e metto una fotuzza mia di quelle antipudibonde, tiene lontani spiriti erranti, vergini di Norimberga, false bionde, chi crede che la cesura tra erotismo e pornografia sia segnata su un gran monolite nero.
 


Rieditata, l'immagine può pure essere approriata al resto,
per/versi molti, ma non mi dilungherò,
né mi sdilinquerò o come si dice.

Va intesa in senso diacronico,
perché per il momento sincronizzarmi così
per me è ubbia.

Poi, per la richiesta stramba è a tempo limitato,
mi stufo a porgere le terga, e un po' di schiena si vede.
Cambierà con altra quando sarà, se sarà, e a gusto mio personale.
 Di meglio, credimi, con tutta la volontà, non posso fare.


***

Sdilinquirò si dice, meglio controllare, ad avere il Tempo.

domenica 10 giugno 2012

Ma scusate



Ma scusate...  anche per il paragone improponibile.
Però voi... sinceramente, come lo preferite?




Così?

Oppure
così?

o  magari
 è così che lo preferite? Al naturale.



Mi raccomando, sincere.
E poi un'altra cosa mi verrebbe da chiedervi:
dov'è che vi cade l'occhio?

Qui?

O magari
lassù, allo sguardo fiero, repubblicano?

Oppure...
Oppure...



***


Ho dovuto cercarla a lungo in rete, ma alla fine l'ho trovata, anche se non è un gran che, visto che la giornata non è così luminosa. E' piazza Maggiore, a Bologna. L'angolo di visuale scelto è quello che indarno cercavo sul uebb, e per giunta non mi ritrovavo neppure foto mie, asino che sono.

In quell'unico punto punto è posta un'utile lastra di pietra scura, uguale a tutte le altre della piazza, diverge solo il colore. Siamo alle spalle del Nettuno, nella piazzetta del reuccio bastardo in ogni senso. L'opera è del Giambologna, al secolo Jean de Boulogne, creata in piena controriforma. Un omaccione gnudo, un dio pagano che fronteggia il tempio cristiano, S. Petronio. Cardinal legato, sanctissimo ac reverendissimo Carlo Borromeo, sei pure santo, e che santo. Ma sei sicuro di averci pensato bene?  


Era il tempo in cui si mutandava il giudizio di Michelangelo, mica cazzi. L'inquisizione preparava i suoi roghi.
In certi frangenti la prudenza è tutto, l'artista accetta la commissione: i soldi del papa fanno comodo, si sa che gli artisti ne sono spesso a corto, sono mani bucate.

Il più grande scultore della Maniera abbozza quando gli viene fatto notare che no, non si può fare tutto ben proporzionato. Passi per le quattro sirene che si strizzano i seni, meglio che zampillino da lì che d'altre parti, ma c'è ben altro, un qualcosa che si deve assolutamente minimizzare. Altrimenti meglio mutandare, come si propose poi.

Giamby abbozza, che sa il fatto suo. Rimugina un attimo e... sapete come sono fatti i geni, trova la soluzione. Una poderosa soluzione, degna degli attributi di un dio. Da un unico, diabolico, angolo di visuale il dio del mare ritrova tutta la sua maestosa virilità, con cui fronteggia la grande chiesa. S. Petronio lassù chissà cosa pensa, non l'hanno fatta neppure cattedrale.

sabato 9 giugno 2012

C'è felicità. O è solo delirio

Zara degli dei
Zara degli eroi
Zara degli dei
Madre degli eroi
Zara degli dei
Madre degli eroi
Zara degli dei
La terra ti bacia
(V. Capossela, Brucia Troia, 2006)



C'è felicità nella scrittura, beato chi ce l'ha.
Felicità in chi ancora si emoziona, entusiasma, appassiona.

E' vero, lo sguardo talvolta mi si offusca,
non discerne che ombre indistinte nella nebbia spessa.
A volte neppure questo, nebbia e solo nebbia.
E io stesso vengo definito ombroso: non me ne adonto,
perlopiù me ne fotto.  E faccio male.

Stacco stanotte lacerti alla luna, me ne nutro.

Terra matriarca, madre, matrigna,
(rossa, grigia, nera, gialla africana, bianca di forre, verde di macchia, e di piombo),
tuo figlio vive immerso in te, non si può staccare dal tuo abbraccio doloroso,
mai ti tradirà.

Altrimenti non so più vivere, se pure non è un inganno di immagini falbe.

Sono un cane folle di nostalgia, nostalgia di me.
Sorella  che mi ami, sorella lontana,
stanotte faccio tana alla luna,
ne divorerò la pelle, a brani.
 
Stirpe maledetta è la mia, se ce n'è una,
non è vezzo, o solo questo:
in me scorre nelle vene scuro e impetuoso sangue di titano.

(Non muta il quadro che là in fondo al gran vascone, in Palestina,
atavici parenti seguitino a cavarsi gli occhi. Shalom e Salam, basta che sia).

Liberi, prosperi e felici quando signore dio era Urano,
quando tutto era un eterno fluire e non ci curavamo dell'avvicendarsi delle stagioni.
Crono ci illuse che quello era il Tempo nostro,
decidemmo di inghiottire il mondo intero,
ma facemmo indigestione e Zeus soppiantò il padre.

Stabilì il suo ordine olimpico, non lo potemmo tollerare,
ma fallì l'assalto al cielo, le saette del dio egeo svettarono le torri orgogliose.
Poseidone completò l'opera, schiaffeggiò chi si trovava per mare,
affondò tra i flutti le temute navi di bronzo. 

Ai miei maggiori non mancava l'animo, seppure temerario,
andarono incontro ridendo all'abbraccio infuocato del dio
(metà uomo, metà toro, orrendo mostro),
tanto che ne restò in ogni lingua della terra d'Occidente verbo,
stigma di ironica protervia.

Io, per schiatta, seguito a non mollare,
piango e rido, se posso chiavo, o semmai mi masturbo,
spero che  questo non vi arrechi eccessivo disturbo: 
entro qua dentro massimamente per svago,
il mestiere mio è altro, è a volte è pure difficile,
vivere.

Per il resto continuo ad andare a cercare nel ventre delle torri abbattute,
bighellone a tempo perso, 
e se mai incontrassi prigioniero il Tempo, lo liberei,
incurante di fulmini e saette, irridente.

lunedì 4 giugno 2012

Nel mio blog c'è la donna

Nel mio blog c'è la donna che stringe in mano il cazzo trionfante, fiera della conquista. Ci sono quelle che non ho amato mai e però sempre. Non manca neppure quella che mi ha fatto il mazzo, con lei è stata una lunga e prolungata svista. C'è la geisha, essenza pura, malata d'amore. E poi la donna ripudiata, quella depravata, quella che sa tutto lei, quella che è una calamità. La più simile a me ha un cuore fedele, di puttana. C'è pure l'assassina, che sul membro mio svilito, e sugli zebedei, ha ballato un tango feroce. Diceva di avermi ucciso, ma è strano, posso ancora sentirmi. C'è anche quella, malandrina, che attendeva il permesso per potermelo succhiare: era poi cosa ardua farla distaccare. Venghino siori, c'è pure la donna ragno che si sposa, ma lo fa per interesse. E più di una con cui filare, ma non tessere. Abbiamo poi quella che non mi ha dimenticato, ma altra cosa è non scordare. (Sulla natura dell'inusitato strumento, ebbene, Vi sbagliate, oppure avete occhi solo per quello). Per alcune ho versato calde e atroci lacrime, perlopiù sincere, ma non sono mancate quelle di coccodrillo. C'è pure quella che apparecchiava il letto di squisite pietanze, con me al centro, nudo e affamato. Ammetto che c'è anche quella che non mi vuole più vedere, per cui fui l'invitto sole, l'acqua da bere. Ci sono le donne che non odio (tutte), e quelle che per me ci sono sempre. Racconto della vicina di casa in topless sulla terrazza davanti alla mia finestra, spiattello con dedizione di quella nera, ed era pure notte, che inghiottì dentro di sé l'intera mia mano, attonita (la mano). Sparlerò anche di qualcuna, chissà: in questo contesto, sotto queste forme, con questi bisogni, spero mi sia perdonato. Rivelerò le mie pruriginose nefandezze con donne a sonagli, maitresse dell'altro mondo, compagne di banco, dottoresse in camice bianco che scrutano scrupolosamente il mio gingillo, spogliarelliste dal senso materno, rare alate visioni. Non tacerò mai il punto di vista: nel mio blog c'è la donna che stringe in mano il cazzo trionfante, fiera della conquista.





domenica 3 giugno 2012

L'esotico

Aspasia. Il fidanzato a casa, tu in vacanza. Vacanza-studio, ok, vabbè. Incontri uno, lì come te a imparar la lingua: è esotico, ma imbranato con le ragazze d'Occidente, che accidente. E' pure gentile però, sorridente, e un po' ti corteggia, roba d'altri tempi.

Il tuo fidanzato è rimasto nella città universitaria, vi conoscevate dalle medie, al liceo vi siete messi assieme. Che coppia. Alternativa. Nella misura in cui. Aliena ad ogni compromesso.  Ahi, lo stress. Non si fara la mess. Finirà tutto al. Uh yeah.

Con l'esotico è il momento dei saluti. Non te l'ha chiesta, non se l'è sentita: fifa gialla. Però al momento del commiato, all'ombra di un grande all'albero, in mezzo a un prato verde, un po' di coraggio lo trova. Azzarda un bacio. Un addio da riportare alla casa lontana lontana. Un'addio come cartolina. Da non mostrare alla sua ragazza, esotica anch'essa, lontana.

E' uno nervosetto il tuo fidanzato, e poi sente che qualcosa gli fugge di mano. Tu. Gli hai anche raccontato dell'esotico per telefono, di questa stramba amicizia che si è venuta a creare. Ma ora dovrai raccontargli anche del commiato. Dovrai? Sì, racconterai quel suo bacio. Maldestro. Ha premuto con forze le labbra sulle tue, trovando il coraggio, ma non lo stile. Però dovrai raccontare anche il resto al tuo ritorno. Dovrai?

Ciò che io so da te, la prima confidenza scaduta, non sembra, ma è la prima ambiguità.  Ridi al maldestro bacio esotico: se davvero avevi una cosa bella era il tuo modo di sorridere. Al tuo fidanzato racconterai che non hai potuto far altro. In fondo eravate una coppia così alternativa. Moderna, oh yeah.

Insegni all'esotico come si bacia. Ti pare il minimo, corpo d'un sacripante. Sei sempre stata così sensibile nei confronti degli inadatti. Le labbra morbide si sfiorano, inusitata la sua lingua riceve in visita la tua. Un bacio che è un'expertise. Yeah, yeah. Che poi il resto chissà.

Finisce la vacanza-studio: quando torni a casa ritrovi un fidanzato macerato, già morbosetto di suo. Forse non avevi ancora deciso se e cosa raccontare. Lui ha il ghigno, provoca, domanda mellifluo (miele che è fiele). Si mostra accondiscente e comprensivo. Sempre più alternativo, moderno. Oh yessss.

Non sa a cosa va incontro, il fidanzatino dai tempi del liceo. Tanti anni assieme e ancora non ti ha capito. Capita. Posso ben dirlo. Gli racconti ciò che sappiamo, niente di più. Restituendo ferite. Dentro di te ricordi di quando lui ti propose una volta, in discoteca, di scambiarti con la troiona di un un suo amico, una mulatta. Loro erano d'accordo, pare, ma rifiutasti. Sdegnata. E non dimenticasti.

Ti incalza il tuo fidanzato, fa ancora il moderno, ma attenta! Ha un brutto ghigno sulla faccia, sembra un sorriso, ma è intinto di sarcasmo. Mostra di avere incassato bene e ti provoca: potevi anche portartelo a letto se ti faceva piacere, è un concetto così arcaico la fedeltà, una sovrastruttura decadente. Prosegue ghignante: invitalo qui da noi l'esotico, non sono mica geloso. Potremmo farlo in tre. Finalmente. Sarebbe così divertente. Divertente, oh yeahhh.

L'esotico manda saluti via etere, non ha dimenticato il bacio, vorrebbe, chissà, ancora. Ne rendi partecipe il tuo fidanzato, la sfida sanguinosa può ora avere inizio.  Perché di sfida si tratta, o no? Non lo sapevi? La decisione è presto presa, l'esotico riceve un cortese invito a comparire al cospetto della coppia moderna. Lo aspetta un soppalco nella camera degli sfidanti.

Ospitalità è una cena italiana, vino rosso, frizzi e lazzi. Si beve e si fuma nel dopocena, a volontà. Quando la notte cala con la sua coltre pesante, l'esotico pensa di aver meritato il riposo, ma l'atmosfera resta elettrica, seppur mascherata di sorrisi e gentilezze reciproche. Ma l'esotico non se ne dà conto, forse viene da Marte. O forse un pensierino, chissà, pure lui ce l'aveva fatto.

Però conosce i doveri di chi riceve ospitalità. Per educazione sa che a una certa ora è bene accomiatarsi. Raggiunge il giaciglio sul soppalco e vorrebbe chiudere gli occhi al sonno. Dormire, sognare forse. Oh sì.

Un diaframma lo separa dai fidanzati alternativi, non vede né percepisce lo scoccare dei loro sguardi reciproci, le parole sommesse, senza ritorno, gli occhi che si sfidano nell'ora fatale. Senti i passi di Lei che fanno scricchiolare la scaletta del soppalco. Chissà il suo cuoricino esotico. E i pensieri convulsi un po' annebbiati. Sa che non può fare finta di dormire.

Tu lo raggiungesti su quel soppalco. E fosti dolce a spiegargli la tresca che si preparava. Ora poteva davvero averti, ma non da solo. Accettò, l'esotico: libidine, voglia di stranezze o buona educazione che fosse. Un'altra cartolina: per lui gli esotici eravate voi.

Non mancò di baldanza quel tuo fidanzato d'allora, Aspasia. Vi ritrovaste in tre su quel giaciglio. La notte era fuori e dentro di voi. Ma l'accordo era ormai stipulato, indietro non si torna. Solo c'è da decidere le varie competenze, le sfere d'influenza, mentre quattro mani carezzano frementi il tuo corpo. Senti le labbra ardenti dei due amanti sui tuoi capezzoli, sul collo, tra le cosce a suggere la linfa tua.  E quelle mani dappertutto. Ne godi, credo. Yeahhh.



Il corpo di una donna. Offre molteplici possibilità di godimento il corpo di una donna. Immagino le tue lunghe mani che stringono, carezzevoli, i due membri eretti, li soppesano, valutano. La testa poi si china e la bocca li accoglie, lecca e succhia in alternanza. Rendendoli irresistibili, senza sospetto.

Con i cazzi si sa come va a finire se li stuzzichi. Fosse uno, ma sono due stavolta. Urge prendere provvedimenti, Aspasia. Hai valutato e soppesato i termini della questione. La scelta è quasi automatica: uno ben lo conoscevi, quello dell'esotico invece è consono alla razza sua, l'ideale per le vie meno battute, per i pertugi più celati e stretti.

Presto fatto: ti issi sul fidanzato disteso. Ma non del tutto disteso: ti appropri di ciò che resta ritto, non fai fatica a farlo entrare in quel tuo crepaccio che cola umori incandescenti. Inglobi l'uomo. Tutto dentro, non se ne deve perdere niente. Sali e scendi, e ogni discesa è un passo verso gli inferi. Per dirla senza virgolettare, hai messo il diavolo nel ninferno. E' il posto suo, si sa.

Mentre godi del ben noto cazzo, l'esotico succhia avido i tuoi seni, come piace a te. E ora di premiarlo, senza paura viste le accettabili dimensioni. Ti appiattisci sul moroso, tenendo sollevate le invitte terga. E' un invito che l'esotico non può rifiutare.

Ti incula, penetrandoti a fondo, fin dove può.  Un sottile diaframma separa i due cazzi dentro di te. Pochi millimetri il sottile diaframma, uh yeahhh. Lì sente lei, e li sentono loro due i rispettivi cazzi che quasi si toccano, si fregano l'un con l'altro. Tragica e infuocata sarabanda.

Ora, dal basso verso l'alto, il fidanzato spinge e sbatte forte, con furore, rabbia si direbbe. Anche l'esotico non è da meno, rannicchiato alle tue terga, usa il tuo culo meglio che può. Ha un cazzetto, ma è ben educato, risponde al ritmo ossessivo mentre con le mani artiglia le tue chiappozze, non s'ha da perdere il minimo contatto. Anche lui sbatte, sfregando il suo coso al membro legittimo. Non fosse per la sottile membrana farebbero scintille.

Hai goduto, Aspasia? Credo di sì, tutto sommato. E pure loro, l'esotico e il fidanzato, nei rispettivi anfratti sono giunti a simultanea conclusione. Di ciò che ne conseguì, di ogni amarezza futura, taccio. Io anche, seppure con distacco, me la godo. E prima di andarmene al mare, ti lascio, come dedica postuma, il seme del mio ricordo.